(Adnkronos) – "L'orientamento prevalente a livello globale, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, è ancora quello di raccomandare il vaccino agli anziani più fragili, i cosiddetti 'grandi anziani', quindi sopra i 75 anni, e ai soggetti con comorbidità dopo i 60 o 65 anni. Però la scelta giapponese va nella direzione di ampliare la platea, introducendo il vaccino anche per gli adulti più giovani ad alto rischio. Una scelta di buon senso, direi". Così l'epidemiologo Gianni Rezza, già direttore della Prevenzione del ministero della Salute e oggi professore straordinario di Igiene all'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, commenta la notizia, di qualche giorno fa, dell'estensione di autorizzazione, in Giappone, per l'uso del vaccino anti virus respiratorio sinciziale (Rsv) agli adulti fra i 18 e i 49 anni di età che presentano un rischio aumentato di sviluppare forme gravi di infezioni da Rsv. "Negli ultimi anni – osserva Rezza – il numero di vaccinazioni raccomandate è cresciuto molto: pensiamo all'antinfluenzale, al vaccino anti-Covid, ora anche all'Rsv. E nel frattempo abbiamo assistito, purtroppo, a un calo delle coperture proprio tra le persone più fragili, anche per il Covid. C'è quindi il timore di un sovraccarico del calendario vaccinale. Ma la vera domanda da porsi è: il vaccino contro l'Rsv può ridurre ospedalizzazioni e decessi nelle categorie a rischio? La risposta dipende dai dati sull'impatto clinico della malattia. Negli Stati Uniti abbiamo molti dati sull'impatto dell'Rsv negli adulti, mentre da noi il quadro epidemiologico è ancora poco definito. Questo ha due conseguenze: da un lato, rende più difficile prendere decisioni precise sulle strategie vaccinali, dall'altro fa sì che la percezione del rischio sia bassa sia tra i pazienti sia tra gli stessi medici. Se una malattia non viene diagnosticata o riconosciuta, il paziente non percepisce il pericolo e il medico fatica a consigliare la vaccinazione". L'età è sicuramente un fattore di rischio, "è ovvio che dopo i 60 o i 75 anni la probabilità di avere patologie aumenta – precisa Rezza – ma il criterio fondamentale dovrebbe restare la vulnerabilità clinica. Se una persona di 45 anni ha una grave patologia, è a rischio tanto quanto un 70enne in buona salute, se non di più. Senza dubbio – riflette – avere più dati epidemiologici e clinici ci consentirebbero di calibrare meglio le raccomandazioni e di spiegare con maggiore forza a pazienti e medici l'utilità della vaccinazione. Se non si fa diagnosi e non si quantifica l'impatto clinico, è difficile far percepire il rischio e quindi motivare alla vaccinazione". —salutewebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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